Difficoltà - Ritardo del linguaggio nei bambini: Cosa fare? a chi rivolgersi?
"Il "topo" diventa "poto". La scimmia, "miscia". A prima vista sembrano simpatici giochi di parole di un bambino che si diverta a invertire i fonemi. Ma non
sempre è così. A volte rovesciare un termine può indicare la presenza di un DSL,
sigla che sta per "disturbi specifici del linguaggio".
Queste situazioni compaiono nella prima infanzia e secondo diversi studi possono interessare dal 5 al 7% dei piccoli che vanno all'asilo, per poi scendere all'1-2% alla scuola elementare.
Alla base dei fenomeni NON ci sono malattie neurologiche, nè problemi dell'articolazione delle parole.
Ma i DSL possono preoccupare i genitori. La cosa più importante da fare, in ogni caso, è rendersi conto della loro presenza e affrontarli.
Perché la difficoltà di acquisire e articolare le parole, cui segue quella di comprenderle e di esprimersi correttamente, può anche “isolare” il bambino a causa di anomalie della sua capacità linguistica che limita le relazioni interpersonali. Il risultato è che da un semplice e simpatico incrocio di sillabe possono nascere disturbi emotivi e comportamentali.
«I disturbi specifici del linguaggio» spiega Tiziana Rossetto, presidente della Federazione Logopedisti Italiani (FLI) «non sono conseguenti a patologie neurologiche centrali o periferiche, né a danni organici dell’apparato articolatorio e non riguardano deficit intellettivi o situazioni di svantaggio socio-culturale. Le ultime ricerche scientifiche confermano la loro origine neurobiologica. A provarlo c’è l’alta percentuale di familiarità , stimata al 70 per cento. Hanno espressioni diverse riconducibili a tre categorie».
Vediamole nel dettaglio: «La prima è caratterizzata dal disturbo specifico dell’articolazione» dice Rossetto «in cui il bambino pronuncia male o non è in grado di pronunciare alcuni suoni che dovrebbero già essere presenti alla sua età .
La seconda interessa il linguaggio espressivo, in cui il bambino costruisce in modo alterato le parole (“poto” al posto di “topo”) o le frasi (come ad esempio “bimbo mangia no” per “il bimbo non mangia”) pur comprendendo perfettamente ciò che gli viene detto.
Il terzo, più grave, è il disturbo della comprensione del linguaggio, in cui il bambino fatica a elaborare sia le informazioni in entrata (difficoltà di comprensione) sia quelle in uscita (difficoltà di espressione)». Sia chiaro. Ogni bambino ha un suo percorso per giungere ad esprimersi ed occorre anche avere un pizzico di pazienza prima di definire un bebè “in ritardo”. Fondamentale è offrire il più possibile stimoli efficaci, come il racconto ad alta voce, quando il bimbo è attento. Altrettanto utile è il ruolo di fratellini e sorelline.
Fatte salve le differenze individuali, mediamente intorno ai due anni un bambino possiede un vocabolario di almeno cento parole e inizia ad articolare le prime frasi, magari usando solo due termini e aiutandosi con la mimica. Sei mesi dopo si verifica il vero e proprio “boom” della capacità espressiva e intorno ai tre anni la capacità di organizzare le frasi – a questo punto anche di tre-quattro parole o più, dovrebbe essere acquisita.
In ogni caso, intorno ai tre anni tutto dovrebbe sistemarsi: in caso contrario, parlatene con il pediatra. La prevenzione, poi, ha la sua importanza. Secondo una ricerca dell’Università di Washington, dalla trentesima settimana di gravidanza in poi il feto riesce a far proprie le parole della madre. Per questo la gestante deve abituarsi a parlare al futuro bebè, insegnandogli a percepire la dolce musicalità di una fiaba o di una canzoncina cantata a bassa voce. Ciò che più colpisce, poi, è la capacità dei neonati di percepire anche le parole di lingue diverse.
I neonati sarebbero infatti in grado, a sette mesi, di distinguere una lingua da un’altra e di cominciare a capire le differenze grammaticali. A dirlo è una ricerca apparsa su “Nature Communications” condotta dai ricercatori dell’Università della British Columbia, insieme a quelli dell’Università Descartes di Parigi. I bebè, secondo lo studio, sarebbero infatti in grado di percepire la durata delle parole per comprendere anche quando queste vengono pronunciate in lingue differenti. Come a dire che una filastrocca in inglese o in francese può solo aiutare il futuro utilizzo dell’italiano!"
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